Spazi di lavoro RGB in fotografia RAW

 In questo post confronto da un punto di vista teorico i tre spazi di lavoro RGB più usati in fotografia digitale raw, sRGB, Adobe RGB (1998) e Prophoto RGB.

Osservando il panorama, si nota che lo spazio di colore più utilizzato è sRGB. Adobe RGB (1998) è considerato la sua alternativa a gamma estesa, mentre ProPhoto è visto con diffidenza, considerato per utenti (chiamiamoli) avanzati e conosciuto esclusivamente per l’estensione del suo gamut.

Origine

Ogni spazio di colore è stato studiato per scopi ben precisi.

sRGB: è stato sviluppato da Hewlett-Packard e Microsoft nel 1996 sulla base del comportamento del monitor CRT medio ed è specifico per la codifica di immagini in ambienti privi di gestione del colore. E’ stato proposto come spazio per Internet, per sistemi operativi e per periferiche di input e ouput. E’ stato accolto con favore da molti produttori.

Adobe RGB (1998): originariamente chiamato SMPTE-240M è stato sviluppato da Adobe nel 1998 per estendere il gamut di sRGB e poter gestire i colori tipici delle stampanti CMYK ma senza perdere di vista gli ambienti privi di gestione del colore.

ProPhoto RGB: originariamente chiamato Reference Output Medium Metric RGB (ROMM RGB) è stato sviluppato da Kodak nel 1999 come spazio di lavoro a gamma estesa svincolandosi dal gamut di qualsiasi periferica di input o output (device independent space). E’ dedicato all’archiviazione, all’interscambio e all’editing di immagini renderizzate (per la codifica di immagini raw Kodak ha proposto lo stesso spazio ma in gamma lineare).

Specifiche tecniche

I tre spazi sono descritti da profili a matrice versione 2.1 di classe monitor (display con caratteristiche ideali) definiti da:

    • le coordinate di cromaticità del bianco
    • le tre curve di risposta tonale (gamma)
    • le coordinate di cromaticità dei tre primari

I tre profili implementano solo l’intento di rendering colorimetrico relativo e colorimetrico assoluto.

Anatomia di una conversione di colore

Per capire i punti di forza e di debolezza degli spazi di colore, vediamo cosa succede durante una conversione secondo la tecnologia ICC. Lo schema sotto descrive la sequenza di operazioni che porta i dati dal PCS, lo spazio Lab o XYZ che unisce due profili, allo spazio di destinazione. La parte di conversione mancante, dallo spazio sorgente al PCS, è speculare.

Nello schema:

  • le frecce indicano la sequenza quando lo spazio di lavoro è la destinazione (es, da spazio di fotocamera a Adobe RGB).
  • la direzione opposta alle frecce avviene quando lo spazio di lavoro è lo spazio sorgente (es, da Adobe RGB a spazio stampante).

1. CAT: la cromaticità del punto bianco

Lo spazio di connessione dei profili ICC ha il punto bianco (WP) in D50. Kodak ha scelto lo stesso bianco eliminando la trasformazione di adattamento cromatico (CAT) necessaria nel caso di sRGB e Adobe RGB (1998) per adattare i dati al differente punto bianco (D65).

La trasformazione di adattamento, come ogni operazione, introduce approssimazioni, arrotondamenti e perdita di informazioni.

2. Correzione del gamma: 1.8 contro 2.2

La correzione del gamma in fotografia raw trasforma i dati del sensore lineari alla luminanza in un formato più coerente con il funzionamento del nostro sistema percettivo (chiarezza). In questi casi la correzione avviene con delle curve descritte dalla legge di potenza (y/ymax)=(x/xmax)^1/γ (il gamma 2.2 per sRGB è un’approsimazione accettata). Se la conversione invece parte dallo spazio di lavoro la curva applicata è l’inverso di prima: (y/ymax)=(x/xmax)^γ

Come sempre, le correzioni comportano una perdita di livelli proporzionale all’entità dell’intervento: dove la curva è più ripida, maggiore è l’intervento e maggiore è la perdita. Graficando le due curve si può vedere che questo succede nell’area prossima allo zero, dove la perdita di livelli è massima:

Una perdita di livelli significa impoverimento delle informazioni disponibili con abbassamento della potenzialità di editing e innalzamento della probabilità di creare aree di posterizzazione.

In Excel con una serie di 256 valori da 0 a 255 ho riprodotto il gradiente ideale ripreso da una fotocamera in modalità raw quindi ancora in gamma lineare. In Photoshop ordinandoli in colonne da 8 pixel questi dati apparirebbero così:

Sui dati ho applicato le due correzioni e ho calcolato le perdite tramite istogrammi e analisi numeriche.

Come in Photoshop, gli istogrammi mostrano in ascissa i livelli da 0 a 255 e in ordinata il numero di pixel che popolano i livelli. Questi sono i risultati:

Si nota che la correzione a gamma 2.2 “spinge” maggiormente i pixel verso il limite destro dell’istogramma: nello ombre c’è un maggiore diradamento e nelle alte luci c’è un ammassamento, cioè un maggior numero di pixel che dopo la correzione condividono il livello con altri pixel che prima occupavano livelli diversi.

Queste le analisi:

Perdite

La perdita sull’intero range va dal 21% al 28% (!) con una differenza tra i due gamma del 10% (!).

Dividendo l’intero range in 5 settori (51 livelli cadauno) si nota che la perdita è nettamente sbilanciata, nelle ombre la correzione 2.2 “si mangia” l’86% (!) dei livelli di partenza. Il gamma 1.8 risparmia il doppio dei livelli rispetto al gamma 2.2 (non ho considerato il livello zero perchè non è coinvolto dalla correzione) “accontentandosi” del 73% dei livelli iniziali. Spostandoci verso il bianco le differenze relative si assotigliano perchè entrambe le correzioni, chi più chi meno, spingono i livelli verso questi settori.

Ovviamente le percentuali di perdita non variano lavorando a 8 o a 16 bit.

Ora, se ricordiamo come vengono usati i livelli in un sistema di cattura lineare come le fotocamere, si vede che la curva a gamma 2.2 va a impoverire delle aree già molto povere di dati (e piene di rumore).

3. I primari

La posizione dei primari sul diagramma delle cromaticità determina due cose:

  1. l’estensione del gamut
  2. il comportamento del profilo.

Il grafico a lato mostra che lo spazio sRGB copre un ‘area limitata di diagramma che in seguito è stata estesa da Adobe con lo spostamento del primario verde. Kodak invece, per estendere le capacità di codifica, ha ridisegnato in toto la posizione dei primari abbandonando la scelta dei primari secondo le caratteristiche dei dispositivi di input o output, andando a spingersi oltre i confini del diagramma. Il primo risultato è che il 13% dei colori mappati dallo spazio non sono visibili all’occhio umano.

I dati sotto confermano l’eccezionale estensione del gamut di ProPhoto: con una capacità di codifica di oltre il 90% dei colori visibili e un numero di tinte uniche stimate di circa 2 880 000 è di gran lunga lo spazio di lavoro RGB più esteso:

L’estensione delle capacità di codifica aumenta le potenzialità di editing e di archiviazione, l’interscambio di originali full gamut, lo sfruttamento del gamut delle periferiche (fotocamera, stampante, scanner, etc), etc.

Sotto, con un profilo creato dal service di profilazione www.photoactivity.com, si nota come solo ProPhoto riesca a codificare e quindi sfruttare tutto il gamut della stampante Canon 6300 (carta Glacier); insieme al grafico ho riportato l’efficienza di codifica dei vari spazi calcolata con Argyll: Adobe RGB “taglia” quasi il 20% dei colori:

Il grafico sopra rende l’idea delle dimensioni del gamut dei tre spazi anche se rappresentare un volume in due dimensioni è sempre un problema. Su quest’aspetto sul web si trovano numerosi confronti simili che possono servire per approfondimento.

La bonta di un progetto si valuta non solo dalle specifiche tecniche ma sopratutto dal comportamento “su strada”.

Per esempio, uno dei problemi degli spazi di lavoro a gamut esteso è riuscire a contenere lo spostamento delle tinte durante le normali operazioni di editing. Per esempio Adobe aveva creato il profilo Wide Gamut sulla falsa riga delle intenzioni di Kodak, ma il comportamento nell’editing di questo spazio era molto critico nelle aree cromatiche dei blu.

Per testare la tenuta dei vari spazi, ho fatto una prova strumentale con delle curve di contrasto RGB che ho descritto nei dettagli in questo post . Qui riporto solo le conclusioni: nonostante ProPhoto abbia il gamut più esteso di tutti si è rivelato il migliore nella gestione delle tinte.

Altre testimonianze sul comportamento di ProPhoto non strumentali ma di fonte attendibile (Bruce Fraser) sono riportate in questo post di Mauro Boscarol.

Conclusioni

In fotografia raw:

sRGB: non è adatto per importare, per editare, per stampare e per conservare degli originali. L’introduzione dei monitor wide gamut ha fatto anche perdere parte della sua importanza (ambienti senza gestione del colore) in quanto la codifica dei dati non è in sincronia con il comportamento effettivo del monitor. Per questo motivo può essere ancora raccomandabile il suo uso per Internet ma ricordandosi di allegare il profilo alle immagini, in modo da permettere al fruitore la possibilità di ricostruire la colorimetria originale indipendentemente dal tipo di display usato.

Adobe RGB: è un miglioramento rispetto a sRGB ma pur sempre un compromesso che Adobe ha deciso in fase di progettazione per adattarsi agli ambienti di lavoro senza gestione del colore. Ora, che la gestione del colore è sempre più utilizzata sta diventando uno spazio anacronistico.

ProPhoto RGB: è l’unico che si è svincolato da limiti imposti e che è stato progettato per il trattamento, l’interscambio, la conservazione delle immagini e per lo sfuttamento di qualsiasi periferica. I risultati visti sopra, con un 4 a 0 finale, fanno intuire le potenzialità del profilo, ma …

“la potenza è nulla senza controllo”

per cui, esattamente come una Ferrari, va usato “cum grano salis” ricordando i limiti dello spazio colore e dallo spazio colore delle periferiche usate:

  • nell’editing non si possono scegliere colori arbitrari, tipo un bel blu 0 0 255 (colore non visibile) né usare la mano pesante perchè si potrebbero spingere (velocemente) i colori talmente lontani dal gamut delle periferiche di visualizzazione e di stampa, che per essere riprodotti avrebbero bisogno di una forte approssimazione con risultati non sempre prevedibili.
    L’esempio a fianco non deve terrorrizzare ma far comprendere i rischi da controllare: a causa della limitatezza del gamut del display, la compensazione a monitor rende questi due colori visivamente indistinguibili ma in realtà c’è una differenze di oltre 33 dE 00
    Per non allontanarsi troppo dai limiti dei gamut delle periferiche usate, sarebbe buona norma individuare le aree dell’immagine che non possono essere riprodotte correttamente dal monitor e dalla stampante. Uno dei sistemi è indicato in questo post anche se non si riesce a capire bene quali soglie di tolleranza vengano usate.
  • Ha bisogno di ambienti di lavoro con gestione colore attivata
  • E’ obbligatorio l’uso dei 16 bit di profondità per evitare fenomeni di posterizzazione delle immagini.

Considerazione finale

L’evoluzione tecnologica porta incrementi lenti ma costanti nelle caratteristiche dei dispositivi di input e output. In futuro (ma anche adesso) chi vorrà sfruttare tali caratteristiche pagate a caro prezzo dovrà per forza abituarsi a gestire ProPhoto RGB. In quest’ottica il mio consiglio è quello di abituarsi ad usarlo subito senza farsi spaventare dai rischi, ma imparando a gestirli.

Sono convinto che quando avrete imparato a usare ProPhoto non userete altro se non in caso di pubblicazioni sul web dove, come detto, sRGB con l’aggiunta del profilo rimane (ancora per qualche anno?) la scelta migliore.

6 pensieri su “Spazi di lavoro RGB in fotografia RAW

  1. Francesco

    Entro direttamente nel merito (comunque bell’articolo! Complimenti).
    Io già utilizzo profoto con PS. Mi chiedo se nelle operazione di calibrazione del monitor (ho un EIZO CG245W) devo impostare illuninante D50 anziché D65 e gamma 1.8 anziché 2.2…
    Grazie per l’attenzione

    Rispondi
    1. Marco Autore articolo

      Le impostazioni di calibrazione del monitor sono indipendenti dallo spazio di lavoro.

      Di solito le scelte sono dettate dalle intenzioni: D65 è considerato lo standard in Europa per ambienti tuttofare, D50 è un punto di bianco “americaneggiante” indicato soprattutto quando la stampa viene confrontata direttamente con l’immagine a monitor.

      Per ulteriori approfondimenti su questo argomento ti consiglio di usare il forum di Mauro Boscarol, uno spazio più adatto alle discussioni: http://www.boscarol.com/forum/

      Ciao e grazie
      Marco

      Rispondi
  2. nino

    Ma i vantaggi del ProPhoto si verificano anche quando porto una foto in formato .jpg per la stampa in un service?

    Rispondi
    1. Marco Autore articolo

      In teoria ProPhoto ti permette di sfruttare tutto il (non eccezionale) gamut delle macchine usate, in pratica la vedo molto dura perchè di solito non si hanno informazioni certe sul modo di lavorare dei service (gestione colore si/no, intento usato rel/perc, entità di compressione gamut, profilo stampanti, etc). I risultati quindi non sono prevedibili.

      Ciao
      Marco

      Rispondi
  3. Denis

    Pongo di seguito il mio dubbio sull’utilizzo del ProPhoto in quanto in materia forse ho un pò di confuzione:
    quanto è importante “sviluppare” un’immagine in uno spazio colore ProPhoto se poi si utilizzano monitor con spazi sRGB per la stragrande maggioranza e RGB per chi ha investito su questa periferica?
    Che importanza ha se poi si utilizza una periferica che converte lo spazio RGB in CMYK?
    Vi ringrazio

    Denis

    Rispondi
    1. Marco Autore articolo

      Quando sento questa domanda mi vengono in mente degli stampatori che mi hanno raccontato che una volta per regolare le immagini da inviare in stampa usavano solo monitor in bianco e nero: il contagocce di Photoshop gli era sufficiente e a detta loro ottenevano sempre stampe perfette.

      Non ha importanza che l’immagine venga codificata in un metodo o nell’altro quando viene inviata in stampa, l’importante è il significato dei numeri (gamut)

      Ciao
      Marco

      Rispondi

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